La Grecia e la libertà d’informazione
Non si sente parlare di ciò che è accaduto e sta accadendo in Grecia. Della repressione dello Stato, di un ragazzo (Alexis) morto ucciso da un poliziotto, storie che per noi italiani sono già sentite, già vissute: da Giorgiana Masi a Carlo Giuliani. È l’agghiacciante silenzio del potere, sempre pronto invece a scagliarsi contro ogni paese che non cede al capitale, che resiste al liberismo, all’egoismo e al moralismo, contro il Sud America socialista di Chavez, di Castro, di Morales, di Correa, di Ortega, di Lugo, contro i movimenti popolari in Italia e nel mondo.
È il canto del cigno prima della morte (più che un canto un lamento), quello di questo potere colluso e mafioso, clientelare e violento, che grida la sua morte ormai prossima, un potere che finanzia le banche che derubano ai cittadini, come è successo in Europa, come è successo in Grecia, come è successo negli Stati Uniti.
La Grecia è oggi un simbolo di rivolta in Europa, il Sud America un esempio di dignità, ma l’assordante silenzio del potere ha lo stesso macabro suono dei raid israeliani su bambini e donne palestinesi inermi: e noi siamo dentro a questo sistema repressivo e totalitario, imbambolati dalle mille lucine colorate vendute dagli schermi dei nostri televisori.
In Grecia studenti e professori (immaginate i baroni delle nostre università italiane, dallo scranno del loro potere gridare rivolta, sarebbe impensabile) hanno messo a ferro e fuoco le università, contro i tagli all’istruzione, contro l’ennesimo atto di un governo che vuole un popolo ignorante e moralista, per meglio salvaguardare i propri interessi. Ma è lo stesso governo di centro destra greco che ora si trova sul banco degli imputati, da corrotto e colluso, con un primo ministro, Kostas Karamanlis, che si trova ai minimi storici per popolarità. Forse in Grecia sono più svegli di noi, forse ancora non abbiamo raggiunto il fondo e ancora non emerge ribellione qui in Italia, ma la pentola bolle e il popolo è l’unico che può cambiare qualcosa. Non è questione di violenza, è questione di cambiamento radicale, di rivoluzione culturale e sociale, di presa di coscienza collettiva, di sostituire il vecchio e stantio con il fresco e il nuovo. È un ciclo storico così come lo sono le stagioni, è la necessità di essere liberi, di vivere una vita da individui felici e realizzati e non da numeri di un dato statistico, ove il nostro malessere è trasformato in utile metodo al fine di aumentare il PIL.
La nuova Costituzione boliviana: indigenista e statalista
Il Sud America continua la sua ondata rivoluzionaria, la sua vocazione umanista e socialista diviene moto popolare inarrestabile. Il presidente Morales incassa la sua ennesima vittoria, il 61,47% del suo popolo approva, dopo tante fatiche, la nuova Costituzione, la possibilità di un futuro diverso da fame e miseria.
La nuova Costituzione dà finalmente maggior potere alle popolazioni indigene, schiavizzate prima di Morales dalle grandi multinazionali occidentali; la Bolivia insegna a scrivere la storia e i principi all’occidente, di modo veramente democratico e partecipato.
Alcuni punti salienti:
- La religione cattolica cessa di essere religione ufficiale: lo Stato ora riconosce la libertà di religione e di credenze spirituali, in accordo con la propria visione del cosmo.
- La forma di governo è definita come democratica, partecipata, rappresentativa e comunitaria.
- Lo Stato è definito come unitario e sociale di diritto plurinazionale comunitario, libero, indipendente, sovrano, democratico, interculturale, decentralizzato.
- I mezzi di informazione non potranno essere monopolistici.
- Ai classici tre poteri giudiziario, esecutivo, legislativo si affianca il potere elettorale, quello dei cittadini.
- I membri del Tribunale Supremo e del Tribunale Costituzionale (l’equivalente della consulta in Italia) sono eletti con suffragio universale e non dal Congresso.
- Si riconosce la coesistenza di regimi economici e di proprietà statali, comunitari, privati e sociali cooperativi.
- Si proibisce il latifondo, ponendo limiti alla dimensione della singola proprietà agricola.
- Le risorse naturali, rinnovabili e non rinnovabili sono dichiarate di carattere strategico. La sua proprietà non potrà essere concessa a imprese o a privati, salvo estensioni di terra limitate per fini agricoli.
- Si proibisce l’installazione di basi militari straniere.
Dcoumenti: la nuova Costituzione della Bolivia – in spagnolo (PDF)
La crisi economica in Islanda, crisi annunciata di un sistema fallimentare
Ecco un’altra notizia che è stata messa a tacere dai media mainstream. A ottobre 2008 la corona islandese perde il 35% sull’euro, i conti bancari dei cittadini vengono congelati, la borsa crolla facendo segnare un -76,13%. La Landsbanki, una delle maggiori banche del paese, viene nazionalizzata (e non come accade da noi, che finanziamo gli stessi soggetti privati responsabili della crisi) e il governo rifiuta l’aiuto del F.M.I., il fondo in mano agli Stati Uniti creato per neo colonizzare i paesi in difficoltà economiche, per esportare il liberismo selvaggio, già responsabile del collasso economico argentino del 2001.
Questa la storia (tratta da Wikipedia), un vizioso giro di soldi, che rappresenta la scaltrezza e l’irresponsabilità del capitalismo internazionale, l’inizio del tracollo di un’economia disumana:
“L’inizio della crisi ha la propria genesi, in realtà, nei primi mesi del 2006, quando si ebbero i primi casi di insolvenza delle tre banche principali dell’isola: la Glitnir, la Kaphting, la Landsbanki. La situazione andò via via peggiorando nel corso dell’anno seguente, per poi precipitare a ottobre del 2008 quando l’intera isola venne travolta dai crolli sulle borse mondiali seguite alla crisi americana dei mutui subprime. Ma cosa era accaduto?
Nel corso dei dieci anni precedenti, l’economia islandese era cresciuta ad un ritmo attorno al 6% annuo, ragguardevole se si considera che si trattava di uno dei paesi con il reddito pro-capite più alto del mondo. L’Europa nello stesso periodo era cresciuta ad un ritmo ancorato al 2%. Ad aggravare la situazione, c’era il fatto che l’Islanda non aveva aderito all’euro, ragion per cui la krona era una valuta fluttuante, esposta all’influenza dei mercati mondiali. I tassi di interesse erano piuttosto alti: 5-6%, contro il 2-4% dell’area euro-USA, e soprattutto lo 0-1% del Giappone. La situazione incoraggiava l’afflusso di denaro dal mercato globale per finanziare debito pubblico, azioni e obbligazioni islandesi. In particolare risultava conveniente a fini speculativi contrarre prestiti, ad esempio, in Giappone e reinvestirli in Islanda (carry trade).
Per arginare il fenomeno, la banca centrale alzò i tassi di interesse. Tale iniziativa, in teoria, avrebbe dovuto scoraggiare il ricorso all’indebitamento da parte degli islandesi, ma ebbe l’effetto contrario a causa dei ridotti volumi in questione (ridotti con riferimento all’economia mondiale, giganteschi rispetto alla piccolissima economia dell’isola). Si innescò, così, un circolo vizioso: più i tassi salivano, più i titoli di debito diventavano appetibili e attiravano capitali, il che spingeva i tassi sempre più in alto, e così via. Nel giro di qualche anno i tassi di sconto, da cui dipendono in particolare gli interessi sui Buoni del Tesoro, raddoppiarono e poi triplicarono fino a sfiorare il 15%.
Nel frattempo le tre minuscole banche islandesi si riempirono di denaro straniero, che utilizzarono in acquisizioni all’estero, specialmente in Svezia, Norvegia, Danimarca. Lo stesso fecero gli imprenditori islandesi acquistando quote in aziende di tutto il mondo. Il ricorso al credito fu ingente anche da parte dei lavoratori, che vedevano i propri salari crescere allo stesso ritmo. D’altra parte, nel peggiore dei casi, investire in Islanda rendeva invariabilmente percentuali a due zeri, come ad esempio nel mercato degli immobili, i cui prezzi erano più che raddoppiati.
A gennaio 2006, l’agenzia di rating Fitch esprime perplessità sul fatto che un indebitamento di tali proporzioni sia sostenibile da parte di un paese di 300.000 abitanti. Si parla infatti di debiti esteri per diversi miliardi di dollari, cioè di cifre confrontabili con l’intero PIL (pari a una decina di miliardi). La sfiducia sui mercati internazionali derivante dall’abbassamento del rating, causò una mancata sottoscrizione di un’obbligazione a cinque anni emessa dalla banca Kauphting, che stava scadendo: della nuova emissione, pari a 1250 milioni di dollari, le richieste si fermano a 600 milioni. La banca restò dunque scoperta per 625 milioni, e fu l’inizio di una crisi inarrestabile, con le caratteristiche code agli sportelli delle banche. Anche il deficit dello stato viaggiava a due cifre (> 20%) e nel corso degli anni aveva portato ad un debito pubblico pari a quattro-cinque volte il PIL.
Nell’ottobre del 2008, dopo ripetute iniezioni di liquidità da parte di diversi paesi che non hanno portato significativi miglioramenti, l’Islanda viene travolta dalla crisi dei mercati valutari americani e si dichiara sull’orlo del fallimento.”